Fotografie dalle rovine della fabbrica di coloranti I.P.C.A. di Cirié

La campagna fotografica è stata commissionata per la pubblicazione di Memoria, conservazione, riuso del patrimonio industriale. Il caso studio dell’IPCA di Ciriè, a cura di Emanuele Romeo, Ermes Edizioni Scientifiche, 2015.

L’atmosfera era allo stesso tempo pesante e affascinante [1]

Fotografare a Ciriè la fabbrica di coloranti I.P.C.A. (Industria Piemontese dei Colori di Anilina) dismessa negli anni ’80 del secolo scorso: questo l’incarico affidatomi.
Volutamente e per scelta non compio ricerche antecedenti alle prime riprese fotografiche sul campo, per cui quando sono arrivato all’I.P.C.A. a fare il mio primo sopralluogo non conoscevo la sua storia, ad esempio non sapevo di trovarmi dentro un teatro di morti bianche.

Nel grande edificio 18/A, a sud del complesso industriale, lo spazio è suddiviso da più livelli: al piano terra in una corte centrale perpendicolare al lato più corto, su uno dei due fianchi, una serie di grandi vasche cilindriche oltrepassano per tutta l’altezza i solai dei soppalchi. Questa immagine, già di per sé inusuale e ricca di spettacolarità per struttura e conformazione dello spazio, mi è sembrata però stranamente familiare. Ho avuto l’impressione di averla già vista. Trovandomi al suo interno ho iniziato ad avere qualche reminiscenza di quello che è poi diventato ricordo visivo più chiaro del documentario “Non si deve morire per vivere” [2] del regista Daniele Gaglianone, visto due anni prima [3]. Da quel momento la mia mente è stata pervasa dai ricordi e dalla storia degli operai morti “sul lavoro”.

Coinvolto in qualità di fotografo, al fine di restituire uno “stato delle cose” sull’I.P.C.A., mi chiedo quali siano le parole più adatte per raccontare con un linguaggio diverso da quello visivo ciò che ho visto in quel luogo? Abbandono è la parola che per prima mi verrebbe in mente per una fabbrica deserta, una tra le tante del territorio piemontese e italiano. Questa fabbrica tuttavia non ha chiuso per un semplice fallimento o per eventi bellici ma per aver causato una tragedia: la morte di centinaia di operai che si sono ammalati di cancro alla vescica.
Unendo su una sola riga le parole usate per definire questo luogo – abbandono, fallimento, tragedia – tutte e tre me ne fanno venire in mente una sola: rovina.

Comunemente i luoghi e gli edifici abbandonati restano in attesa di essere riconvertiti in altro oppure di essere demoliti per far spazio al nuovo che avanza in modo prorompente. Le rovine, invece, hanno un rapporto diverso con tutto il resto: esse sono memoria storica della vicenda umana, legata all’ambiente in cui insiste e al territorio in cui si svolge, si vive e si è vissuta la vita di ogni giorno, come nel caso dell’I.P.C.A.
Tutto questo mi fa pensare a casi come Beirut, fotografata da Gabriele Basilico in attesa della sua “annunciata ricostruzione” e ai suoi resti dopo una guerra civile durata 15 anni; o ancora alle centinaia di vittime dell’Aquila, colpita dal terremoto nel 2009 e alle sue rovine nella zona rossa che copre l’intero centro storico [4]; o ancora al sisma del 2012 sul territorio emiliano, che ha causato decine di vittime e ingenti danni agli edifici civili, alle costruzioni rurali ed industriali, agli edifici e ai monumenti storici. 

Come fotografare delle rovine senza farsi coinvolgere dal loro fascino e dalla loro astrazione pittorica? Come restituire il senso di un luogo senza trasfigurarne la memoria e senza eluderla nel rispetto della tragedia avvenuta a vantaggio di un risultato accattivante? Come fotografare cercando di far continuare a vivere all’interno delle rovine la memoria del luogo e la sua storia?
Queste domande mi si presentavano in ogni successivo sopralluogo. La storia della fotografia e la fotografia stessa mi hanno aiutato: pensare a Bernd & Hilla Becher e al loro lavoro, che ha visto protagonista per più di cinquant’anni l’archeologia industriale e la sua catalogazione non in maniera scientifica, ma in favore della classificazione di “forme” come serbatoi, torri di raffreddamento, torri di estrazione e altiforni [5]; il lavoro dello stesso Basilico, in particolare le sue fotografie del progetto “Ritratti di fabbriche” [6] e non ultime le sue fotografie della già citata “Beirut 1991” [7]. Tenendo ben presente questi esempi sono andato avanti procedendo nel delicato compito. 

A differenza dei lavori degli autori citati, ho scelto di lavorare con il colore che in questo caso reputavo importante quanto la forma. Ho effettuato riprese con immagini tutte a fuoco; a seconda della complessità dei soggetti ho adottato delle riprese diverse o da un solo punto di vista frontale o da differenti angolature prospettiche, e ancora eseguendo campo e controcampo cercando di mantenere lo stesso punto di ripresa. Infine, facendo attenzione a non cedere ad immagini didascaliche e scene di carattere tragico, ho cercato di fare delle “constatazioni” dove i luoghi e gli oggetti sono come ci appaiono, in quanto tali, nella loro autonomia, adesso.

_______________________________
[1] Gabriele Basilico, Beyrouth Centre Ville 1991, in G. Calvenzi (a cura di), Abitare le metropoli (collana: Lezioni di fotografia), Contrasto, Roma 2013, p. 63:  “Ricordo di essere arrivato a Beirut di notte, una notte molto chiara. La città non era illuminata, e gli edifici sembravano fantasmi. Si sentiva solo il rumore dei generatori elettrici. Lo spazio era percepibile ma non la materia. L’atmosfera era allo stesso tempo pesante e affascinante. Il giorno successivo ho cominciato a fare dei sopralluoghi. Si trattava di cercare le chiavi per instaurare un rapporto personale e affettivo con il luogo, un dialogo il più umano possibile. Volevo familiarizzare, smettere di considerare la città come ferita aperta o come una reliquia. Sul piano emotivo volevo combattere il sentimento di dolore di fronte a una città la cui bellezza era tanto impressionante quanto la sua distruzione.
[2] Daniele Gaglianone Non si deve morire per vivere (Italia, 2005, 35’)
Non si deve morire per vivere è la testimonianza della coraggiosa e tenace lotta di Benito Franza e Albino Stella per rendere pubblica la malattia contratta sul luogo di lavoro, la fabbrica di coloranti Ipca di Cirié. L’assenza di misure di prevenzione e di tutela, il quotidiano contatto con sostanze tossiche e nocive è stata la causa di morte di numerosi operai: dalle parole dei figli delle vittime si ricostruisce un tassello della storia economica e sociale del nostro Paese (che si intreccia saldamente con tante storie private spezzate dalla malattia) che molti vogliono dimenticare.
[3] Il Museo Nazionale del Cinema ha ospitato il 6 marzo 2012, nella Sala Uno del Cinema Massimo la serata inaugurale della XII edizione del Piemonte Movie gLocal Film Festival. Per l’occasione fu proiettato il documentario Non si deve morire per vivere di Daniele Gaglianone. L’autore era presente in sala per introdurre al pubblico il proprio lavoro. Il festival dedicato al tema delle periferie urbane e dei bassifondi per quell’occasione ha proiettato documentari sul tema della sicurezza sul lavoro nei cantieri e dell’abbandono delle ex aree industriali.
[4] Nina Bassoli, 2010, L’Aquila un anno dopo il terremoto, in Above Ruins Lotus International 144, Editoriale Lotus, Milano 2010, pp. 46-57.
[5] Bernd & Hilla Becher at Museo Morandi, G. Maraniello (a cura di), Mostra e catalogo, MAMbo Bologna e Schirmer/Mosel Monaco 2009.
[6] Gabriele Basilico, Milano ritratti di fabbriche, Federico Motta Editore, Milano 2009.
[7] Gabriele Basilico, Beirut 1991 (2003), Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2003.